Il primo febbraio di 60 anni fa, Bepi arrivava all’Oratorio di San Donà. Ricordi ed attualità si intrecciano in questa intervista...
Al tuo arrivo la scuola professionale stava muovendo i suoi primi timidi passi. Quali ricordi conservi di questi faticosi inizi?
“A febbraio del 1960 la scuola professionale era al suo terzo anno di vita ma la struttura esistente, che mancava dell’ala ovest e dei capannoni, era inadeguata ad accogliere aule e laboratori. Con la benevolenza di mons. Saretta e delle suore, si poteva però usufruire dei fabbricati del vicino orfanotrofio, almeno per dar risposta alle esigenze del settore meccanico e della falegnameria. Al mattino partivamo in bicicletta, rigorosamente in fila indiana. Io in testa. Qualcuno si lamentava del fatto che i nostri ragazzi lungo la strada suonavano i campanelli delle case. Mi sono allora messo in coda, ma non ho mai colto alcuna scorrettezza. Erano davvero bravi ragazzi! Credo fosse l’antagonismo con l’INAPLI, l’istituto professionale pubblico nostro concorrente (che godeva allora di un favore generale) ad alimentare dicerie e lamentele. A distanza di anni le cose si sono capovolte. Oggi ci siamo trovati ad accogliere i loro alunni. Dobbiamo ringraziare il Signore per l’ottimo consenso che sta riscuotendo la nostra scuola.
I macchinari della sede staccata erano davvero insufficienti: potevamo disporre soltanto di 2 o 3 saldatrici …per 60 ragazzi! Le esercitazioni si riducevano necessariamente ad un lavoro di perfezionamento e di rifinitura. Quanta lima..! Se lo ricordano ancora gli ex allievi di prima generazione! Anche se le condizioni erano precarie, si cercava di trasmettere gli insegnamenti fondamentali per la futura professione: l’attenzione al dettaglio, la cura delle attrezzature e la serietà nel lavoro. Soprattutto i valori dell’amicizia e della confidenza. Ne troviamo conferma nelle parole di uno di quei primi studenti: Era sbalorditivo vedere un insegnante in cortile trasformarsi in un compagno di giochi, in un amico con cui rapportarsi con naturalezza.
Dopo il buongiorno del preside o del direttore, a quel tempo don Zancanaro, si proseguiva fino alla buonanotte (pensiero salesiano di fine giornata) delle ore 16.00, con la sola sosta del pranzo. Non c’era servizio mensa. I ragazzi si portavano via la gavetta che riscaldavano nel forno, realizzato grazie al supporto tecnico del coadiutore Domenico Venier, oppure in cucina, messa gentilmente a disposizione dalle suore. Un adattamento davvero familiare.
Le tante difficoltà portarono ad accelerare la costruzione dei capannoni”.
Quali differenze cogli tra la vecchia scuola e quella attuale?
“Nessuna. Certo, allora era più facile che gli alunni prestassero attenzione, adesso a volte mettono in discussione l’educatore, ma il segreto sta sempre nel tener presente il trinomio suggerito da don Bosco: ragione, religione e amorevolezza”.
Sappiamo che il tuo impegno non si limita alla scuola e al cortile. Quali altri percorsi formativi hai sostenuto in questi 60 anni di presenza a San Donà? Quale stile ha caratterizzato il tuo servizio?
“Appena arrivato mi è stato affidata la guida dei Domenichini. La prima cosa che ho fatto è stata quella di restituire dignità anche formale al gruppo chiamandolo: Associazione Domenico Savio.
Dopo circa due anni, abbiamo avviato l’esperienza dei campi scuola: si trattava di un’attività estiva di gioco, escursione e formazione che occupava i ragazzi per ben 3 settimane consecutive! L’occasione ci è stata offerta dalla donazione di un rustico a Vallonga, in Val di Fassa. I lavori di ristrutturazione hanno richiesto la trasformazione del fienile in camerone e quelli della stalla in un locale adibito a servizi con un’unica doccia. Condizioni oggi impensabili!”.
La guida competente di don Giuseppe Scaranto, grande amante della montagna, ha portato Bepi a conoscere ogni angolo di quello straordinario ambiente dolomitico.
Passato in Azione Cattolica, si è trovato a dover esplorare i sentieri delle Alpi carniche. Con lo scrupolo che lo contraddistingue, provava dapprima le uscite con un giovane salesiano o un animatore fidato, partendo all’alba per rientrare all’ora di colazione, in modo da non rubare spazio ai ragazzi. Il giorno successivo ripeteva il percorso avendo ben chiari i riferimenti essenziali: i punti dove far sosta, le difficoltà dell’impresa, le escursioni da differenziare in base all’età e alla preparazione dei ragazzi, percorsi alternativi che sempre regalavano panorami mozzafiato.
Quando la fatica sfiancava piccoli e grandi, ecco che escogitava qualche strategia per ricaricare il gruppo: “durante le lunghe passeggiate in montagna, dopo il pranzo al sacco, ci mettevamo in fila per prendere la grappa con il ciuccio dalla sua bottiglia”. In realtà un intruglio colorato che “sembrava la pozione magica di Asterix”.
Altre volte faceva ricorso alla sua smisurata fantasia e allora infiorava i racconti con osservazioni creative, li condiva con preziosi insegnamenti, alimentava aspettative… fintantoché i ragazzi finivano per cedere a lusinghe e promesse e riprendevano il cammino. “Non trascurava mai nessuno. Era fondamentale che tutti, e non solo i più allenati o i più obbedienti, raggiungessero la meta!”
La sfida, la competizione erano obiettivi precisi del suo sistema educativo. Se gli capitava di scorgere un gruppo di un’altra casa salesiana, era capace di sospendere il pranzo per spronare i ragazzi a raggiungere per primi la meta stabilita, non per puro spirito competitivo, ma per far comprendere che ogni impresa importante richiede tutto lo sforzo, la fatica e le energie possibili. “Solo allora le conquiste saranno fonte di gioia”.
La sua presenza era (ed è tuttora!) fortemente carismatica: “quando c’era da richiamare l’attenzione, bastava il gesto semplice di un fazzoletto bianco sventolato per far tornare il silenzio”.
“Ora do una mano, ma non partecipo più ai campi mobili. E nemmeno a tutti i campi”, sottolinea con un tono di voce che tradisce un po’ di rammarico. “Purtroppo gli anni passano ed è necessario essere attenti ed obbedienti. Comunque finché ci sono forze si spendono per i giovani!”.
Wally Perissinotto
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